film, USA 2021, 145’, colore
regia di Adam McKay
con: Leonardo DiCaprio, Jennifer Lawrence, Cate Blanchett, Meryl Streep
Mentre sta osservando il telescopio della sua università in Michigan la dottoranda Kate Dibiasky fa una straordinaria scoperta: una cometa non ancora identificata cui il suo professore e mentore, Randall Mindy, dona addirittura il nome della ragazza. C’è solo un piccolo inconveniente: la cometa, dal diametro eccezionalmente grande, punta diritta verso la Terra, e si stabilisce che la colpirà entro sei mesi. Mindy e Dibiasky decidono di rendere partecipe il mondo statunitense della loro tragica scoperta: cosa succederà?
Nel suo essere un film comico di fantascienza che si immerge fino al collo nel bitume della quotidianità, Don’t Look Up diventa una creatura multiforme, come spesso capita con McKay, che si approssima al cinema attingendo a un ipertesto continuo, nella costruzione di una stratificazione che è l’arma politica per combattere la vacuità della società, tesa invece a una semplificazione continua. Mentre tesse la tela delle psicologie dei suoi protagonisti, tra radicalizzazione del pensiero e ammiccamenti alle forme di potere che possono essere generate da una situazione schizoide, McKay costruisce strato per strato la sua angosciante narrazione di un’America decerebrata, in cui il dolore è stato espulso a favore di un’ironia esagerata quanto dannosa, e ogni elemento del vero, per dirla à la Debord, si è allontanato in una rappresentazione. L’immagine è preferita alla cosa, la copia all’originale. La continua messa alla berlina di ogni aspetto del sistema – McKay è uno dei pochi cineasti statunitensi d’oggi a interrogarsi sul sistema-società, e su ciò che comporta: in tal senso la sua azione è puramente socialista, e questo non fa che giustificare i profondi attacchi, di natura strettamente ideologica, che i suoi film ricevono in patria – trova nell’ironia demenziale, esasperata come l’ipertrofia dell’oggi suggerisce, la sua tonalità espressiva ideale. Come già fecero Seth Rogen ed Evan Goldberg poco meno di dieci anni fa in Facciamola finita, anche McKay manda al massacro il mondo intero canticchiando una canzone sconcia, e lo fa come atto politico. Il comico come unica resistenza attiva a una comunicazione del “vero” eternamente falsa, ma accettata come plausibile da una comunità che ha perso il senso di collettività, e dunque di materica esistenza. Per questo è solo attraverso l’azione collettiva (la protesta in piazza, il concerto, e infine la cena domestica tra parenti e amici) che si può non sopravvivere, perché alla fine del mondo non si può mettere un freno, ma almeno ritrovare la propria dignità. McKay riesce a cogliere il sorprendente punto di connessione tra il riso sfrenato – il film è un fuoco di fila di situazioni comiche, tutte gestite alla perfezione grazie a un lavoro certosino e molto intelligente in fase di scrittura: si pensi al modo in cui si inserisce en passant in narrazione il concetto futuristico di “brontrock”, e a come poi questo si tramuti in realtà nel corso del film – e l’angoscia più profonda, la nostalgia del vivere, la sincera purezza dei momenti anche più banali quando ci si approssima all’ineluttabile.
Questo senza dimenticare dei veri e propri tormentoni destinati a diventare dei momenti di culto, come il reiterato ricordo di un’assurda e illogica micro-truffa compiuta da un importante militare pluridecorato ai tre scienziati che stanno portando alla Casa Bianca la ferale notizia della scoperta della cometa. Dimostrazione di un controllo completo del meccanismo della narrazione, del suo senso più profondo. E poco importa se alcuni personaggi siano meno messi a fuoco – Jonah Hill, al di là del suo talento, è forse parzialmente sprecato, mera funzione priva di una concreta psicologia –, perché quel che conta è una volta di più il lavoro sui codici del racconto politico che McKay sta evolvendo film dopo film, e che non ha eguali nel proscenio attuale hollywoodiano.
Raffaele Meale - Quinlan - 14.12.2021
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