documentario, USA 2016, 82', colore
regia di Valentina Canavesio


Un lungo viaggio intorno al mondo per fare luce, con l'aiuto di esperti internazionali, sui reali effetti conseguenti alla crescita della popolazione mondiale e alla diseguaglianza dei consumi. A ciò è strettamente legato il progressivo esaurirsi delle risorse terrestri, fenomeno che avviene più velocemente di quanto la natura consenta. Il limite di sostenibilità per il Pianeta è stato raggiunto, ma numerose e differenti sono le storie di chi sfida l'idea che il mondo possa sopportare ulteriormente il peso dell'impronta umana: attivisti impegnati sul territorio, operatori sanitari, persone comuni che si raccontano suggerendo di ripensare a ciò che è veramente in gioco.




RECENSIONE

Quando si parla di popolazione umana, inevitabilmente, si mette sul tavolo una parola (popolazione) che svela in che modo, e con quali conseguenze, la disponibilità di energia fossile abbia cambiato la specie umana negli ultimi due secoli. Tecnologia, agricoltura moderna, farmacologia e chimica ci hanno consentito di imporre al Pianeta una demografia invasiva che rimette in discussione la nostra intera dimensione riproduttiva di specie. Un senso di colpa che finisce per diventare imbarazzante cortocircuito cognitivo, un disagio amaro per ciò che, in fondo, noi tutti siamo, questo è Footprint, il documentario della filmmaker Valentina Canavesio presentato di recente anche in Italia (al Festival Cinemambiente di Torino), un lavoro schietto che affronta la questione della demografia umana (siamo 7 miliardi e potremmo crescere di altri 2 entro il secolo) scavando nella identità femminile di oggi, in Messico, Pakistan, Kenya, Filippine. Il documentario racconta la storia della questione demografica, dagli ’60 (quando a Stanford gli studenti entusiasti delle ricerche di Paul Ehrlich fondavano lo ZPG MOVEMENT) fino alle infatuazioni cattoliche delle moderne Filippine dove l’attivista Carlos Celdran rischia il carcere per aver invocato l’urgenza dell’uso del preservativo. Il maggior pregio del documentario sta nel mostrare fuori da ogni retorica che la sovrappopolazione del Pianeta ci è già sfuggita di mano e che questa condizione demografica ha delle serissime implicazioni antropologiche. Implicazioni che riguardano le condizioni materiali, emotive e psicologiche in cui milioni di persone sono costrette a vivere nelle baraccopoli e nelle periferie suburbane del Pianeta.

“Ho cominciato guardando in faccia il tabù della popolazione, che esiste anche tra le organizzazioni ambientaliste, che non ne parlano. Quando affronti questo argomento, è come se stessi toccando le persone in qualcosa di molto personale; aggiungici che, spesso, anche il razzismo entra in discussione”, mi dice Valentina da New York. “La sfida di fare un film come questo è che, come regista, ero costretta a parlare di una situazione che è già adesso oltre il suo punto di rottura, che è già adesso molto critica. E naturalmente riguarda anche così da vicino le ingiustizie sociali, l’accesso alle risorse naturali sulla base della ricchezza sociale”. Il documentario mette infatti in lugubre sinfonia le due impronte ecologiche della nostra epoca, la “carbon obesity” tipica delle nazioni occidentali, e la “carbon starvation” dei paesi più poveri depredati dall’ordine economico mondiale: “Mi sono resa conto che anche parlare del consumismo è un grande tabù. Viviamo in una società obesa, dove comprare roba è ormai una abitudine, e dove l’imperativo del successo personale è predominante: avere sempre di più. In Occidente, è un enorme tabù dire alle persone, non dovresti avere una macchina grande, una grande casa e una potente lavastoviglie”. E infatti, nell’episodio girato a Mexico City una madre di famiglia che può comunque permettersi di comprare da una compagnia cittadina acqua potabile preziosamente custodita in grossi bidoni di plastica (i rubinetti della capitale spesso rimangono a secco) dice, con una sorta di timidezza, che sì, è importante poter lavare i piatti dopo il pranzo. Ma intanto in Europa, come fa notare il ricercatore svedese Hans Rosling in un dei passaggi più rivelatori del documentario, non si sogna più quello che si sognava una volta e questo ha, appunto, una carbon footprint: negli anni ’60 bastava una automobile, oggi tutti vogliono volare low cost.

 Nel documentario della Canavesio è evidente che la pretesa cattolica che sul Pianeta ci sia posto per tutti si è rivelata storicamente falsa. L’estrema concentrazione di esseri umani rende un inferno la vita sulla Terra perché brucia le risorse naturali e perché altera l’assetto psicologico delle persone. Come ogni altra specie, anche noi abbiamo bisogno di un “home range”, uno spazio adeguato a sostenere lo sguardo sull’orizzonte: una baraccopoli riduce questo sguardo sino a fare della coesistenza gomito a gomito una devastante costrizione, una intimità sudata e disperata, da cui bisogna scappare.

Uno degli obiettivi del documentario era mostrare che la teologia islamica è molto più aperta di quella cattolica a discutere la pianificazione familiare: in Pakistan (37 milioni di persone nel 1950, 192 nel 2015), un Iman dice davanti alla cinepresa “L’islam è per la qualità, non per la quantità”. Da qui, forse, si può provare a discutere del problema demografico di Homo sapiens.

Elisabetta Corrà

fonte: Tracking Extinction