film, Italia 1964, 132', b/n
regia di Pier Paolo Pasolini

Il film è una riproposizione molto fedele del Vangelo secondo Matteo, che evita rigorosamente i pericoli e i veleni dell'estetismo riproponendo un Cristo radicato nella terra e nel paesaggio, circoscritto dalla dolente coralità della folla. 

"Pasolini ha mirato a darci un Gesù duro, violento, iconoclasta, inflessibile, come appunto doveva apparire ai suoi contemporanei e non come appare oggi a noi ". (A. Moravia)

“Avrei potuto demistificare la reale situazione storica, i rapporti fra Pilato e Erode, avrei potuto demistificare la figura di Cristo mitizzata dal Romanticismo, dal cattolicesimo e dalla Controriforma, demistificare tutto, ma poi, come avrei potuto demistificare il problema della morte? Il problema che non posso demistificare è quel tanto di profondamente irrazionale, e quindi in qualche modo religioso, che è nel mistero del mondo. Quello non è demistificabile ”. (P. P. Pasolini)

UNA RECENSIONE
Il tempo della folgorazione biblica fu, per Pier Paolo Pasolini – ateo, marxista e anticlericale – il tempo di una rivelazione spirituale iscritta nel corpo del cinema. Era l’autunno del 1962 quando, relatore ad un convegno dal titolo Il cinema come forza spirituale del momento presente, Pasolini si trovò ad Assisi, ospite della Cittadella di Don Giovanni Rossi e dell’associazione cattolica Pro Civitate Christiana. Nonostante il suo anticlericalismo dichiarato, furono la forte coscienza delle proprie radici cristiane, l’amore per la tradizione contadina e la concezione profondamente umana dell’esistenza, a spingerlo sempre incontro al tema della trascendenza.
Ad Assisi avrebbe dovuto parlare del suo “Accattone”. Ma il 4 di ottobre i lavori si interruppero per via di un fatto straordinario: Papa Giovanni XXIII, in visita a Loreto, aveva deciso a sorpresa di concludere la sua giornata proprio nella cittadina francescana. La comunità si mise in agitazione, mentre scattarono i preparativi di rito per accogliere il Pontefice. Pasolini fu invitato a prendere parte alla delegazione che avrebbe reso omaggio a Roncalli. Ma rifiutò. Si chiuse nella sua camera, in foresteria, e aspettò. Accanto al letto giaceva, come in ognuna delle stanze, un’edizione del Vangelo di San Matteo: lo prese in mano, cominciò a sfogliarlo, e nel giro di poche ore lo divorò. D’un fiato.
Quell’”incidente” letterario – avrebbe raccontato dopo – fu per lui “una furiosa ondata, un trauma, un impulso che in quel momento lì era assolutamente oscuro, una forma di esaltazione, quella che Bernard Berenson chiama ‘l’aumento di vitalità’ che dà la lettura di un grande testo, la visione di un grande quadro”.

Non aveva voluto incontrare il Papa, Pasolini, forse per timidezza, forse per inquietudine o diffidenza. Ma in qualche modo fu la parola di Dio a raggiungere lui. Quella sera stessa si confidò con Don Rossi: “Farò un film sul Vangelo di Matteo. L’ho deciso dopo aver letto, sdraiato sulla branda, il libretto che ho trovato sul comodino. Però dovete aiutarmi, io non sono un credente. E sono anche marxista”.
E lo aiutarono, alcuni illuminati uomini di Chiesa, nonostante i preconcetti di certi ambienti borghesi conservatori, che non vedevano di buon occhio la sua cinematografia, provocatoria e non ortodossa, tantomeno la sua omosessualità. Dei biblisti e dei sacerdoti lo accompagnarono in Terra Santa, per conoscere i luoghi di Gesù, mentre lo stesso Papa incoraggiò la produzione. “Alla cara, lieta e familiare memoria di Giovanni XXIII”: con questa dedica Pasolini siglò il suo film, uscito nel 1964 e premiato con il Leone d’Argento alla Mostra del Cinema di Venezia.

Che ci sia qualcosa di miracoloso, nella genesi e nell’essenza di quest’opera, è un fatto. Una sensazione diffusa, trasversale, che supera qualunque approccio dogmatico. Il Vangelo secondo Matteo parla una lingua universale. Essendo, prima di tutto, un’opera di pittura e di letteratura, una raccolta di icone in movimento attraverso cui filtra un sentimento del sacro abbagliante, ma mai retorico: sequenze di parole, di letture, di sussurri, di silenzi, di primi piani innocenti, di gesti ultimi, di paesaggi infiniti e brulli. All’origine del mondo. Una trasposizione genuina, fedele ed anti ideologica, esaltata da una colonna sonora straordinaria: dalle musiche originali di Luis Bachalov, fino a Bach e Mozart.
Non è un caso che proprio questo Vangelo, su tutti, si distingua per il grande spazio dedicato ai discorsi di Gesù, ai suoi insegnamenti, alle sue metafore e alla sua oratoria, tanto da spingere uno scrittore cristiano del secondo secolo, Papia di Gerapoli, a definirlo il libro degli “Oracoli”.
È così che nella trasposizione pasoliniana l’indagine psicologica, l’eccesso narrativo, l’indugiare sul dato biografico, l’ostentazione del pathos, l’esegesi e la celebrazione del mito, lasciano il posto alla potenza dell’immagine e della parola, incise su pellicola. Pittura, in forma di cinema. Cinema, come poesia o preghiera. Il Vangelo secondo Matteo non è esattamente un film. È una lunga orazione, scandita da un bianco e nero lirico,  in cui è l’immagine cinematografica a farsi epifania cristologica.

Helga Marsala

fonte: Artribune