film d'animazione, Belgio 2016, 80', colore
regia di Michael Dudok de Wit

Gran Premio della Giuria al Festival di Cannes 2016




LA STORIA
Un naufrago su un’isola deserta, l’arrivo di una enorme tartaruga rossa, la vita che sembra finire ma subito ricomincia, la
furia distruttiva della natura, la morte. Nessun dialogo, un continuo ininterrotto silenzio cadenzato da qualche grida. Tra la sabbia, la roccia, gli alberi e l’acqua di uno spurio atollo tropicale la storia dell’uomo si fonde con quella animale, cilindro produttivo dello Studio Ghibli a sostenerne l’assunto, poi lo svolgimento narrativo verso la conclusione riporta filosoficamente ad un escatologico pensiero occidentale. Ed è proprio in questo susseguirsi generazionale, nell’andamento atemporale del ciclo di vita, in un intimo senso di struggimento che Dudok de Wit colloca il centro del suo discorso drammaturgico: “Il film racconta la storia in modo lineare e circolare e utilizza il tempo per parlare dell’assenza di tempo, un po’ come la musica può mettere in rilievo il silenzio. È un film che racconta anche che la morte è una realtà. L’essere umano tende a contrastare la morte, ad averne paura, a lottare per scagionarla e si tratta di un atteggiamento molto sano e naturale. Eppure si può avere nello stesso momento una bellissima comprensione intuitiva del fatto che siamo pura vita e non abbiamo bisogno di opporci alla morte. Spero che il film trasmetta un po’ questo sentimento”. 

UNA RECENSIONE
La tartaruga rossa è il primo lungometraggio di De Wit dopo una serie di ottimi corti. Il suo è un cinema di puro amore per l’animazione, una forma d’arte che, nelle mani dei suoi migliori interpreti – come lui – permette una comunicazione emozionale senza compromessi. Figlio del cinema di Jurij Norstein, di Silvain Chomet e dello stesso Takahata, De Wit incarna alla perfezione quel filone tutto francese di un cinema d’animazione in cui si preferisce che a parlare siano le immagini (e il loro portato emozionale) e non i dialoghi. Non a caso La tartaruga rossa è un film non parlato, fatto di immagini, suoni, musiche. Un cinema dei primordi, forse, in cui le componenti di accumulo sono azzerate, lasciando quindi un’essenzialità che manca al cinema di oggi. Da questo punto di vista La tartaruga rossa è decisamente vicino alle suggestioni e al modo di raccontare di un altro grande film animato, L’illusionista di Chomet, mantenendo comunque una propria indipendenza visiva e concettuale.

C’è inoltre un filo rosso che lega le opere precedenti di De Wit a questo lungometraggio. Qualcosa che ha a che fare con il ritorno, con la necessità di amare, con la paura della solitudine, il coraggio di osare. Tralasciando cortometraggi come The Monk and the Fish, appare chiaro come The aroma of Tea, Father and Daughter e La tartaruga rossa vadano a costituire l’ossatura di una poetica cristallina. In particolare Father and Daughter, che racconta la vana attesa del ritorno del padre da parte di sua figlia mentre il tempo scorre, si lega concettualmente al tema centrale de La tartaruga rossa.

Il film co-prodotto dallo Studio Ghibli è una grande metafora della vita, dei suoi alti e bassi, del suo scorrere inesorabile. La vita del protagonista equivale, con le dovute proporzioni, a quella di ciascuno di noi: un percorso fatto di scossoni, rabbia, amore, nostalgia, noia. De Wit, coadiuvato da Takahata, costruisce momenti di pura poesia visiva, alternando sequenze oniriche (magnifiche quelle in cui sogna di fuggire attraverso un ponte immaginario, o quando è divorato dal senso di colpa nei confronti della tartaruga) ad altre dal forte impatto emozionale (lo tsunami, l’addio al figlio, i teneri momenti in cui la famiglia si stringe attorno al proprio amore). Il tutto accompagnato da una regia esemplare, minimale, delicata e, naturalmente, un’animazione notevole, capace di mescolare con fluidità tecnica tradizionale a quella in computer grafica.

Per tematiche e approccio alla materia La tartaruga rossa è estremamente distante eppure incredibilmente vicino agli ultimi, giganteschi film di Takahata: I miei vicini Yamada (1999) e La storia della principessa splendente (2013): tutte e tre le opere sono corpi apolidi che sembrano appartenere a un’idea di cinema distante, persa, dimenticata. Per la capacità di coinvolgere lo spettatore da un punto di vista emozionale e razionale è più vicino a Valzer con Bashir (Ari Folman, 2009), con cui condivide la scelta di intrecciare piano reale e piano onirico.

La tartaruga rossa è un film che permette a ciascuno di “ritrovarsi”, grazie alla capacità di smuovere elementi emotivi vitali come il ricordo e la nostalgia. Quello di De Wit e di La tartaruga rossa è un cinema che celebra il ritorno: alla propria infanzia, al proprio sogno, all’amore per un figlio; un ritorno a una dimensione priva di sovrastrutture ma libera di essere un luogo in cui, finalmente, si possa fare pace con l’idea di una fine definitiva. Un ritorno alla parte più pura di noi.

Andrea Fontana

Fonte: Fumettologica