film, Francia 2020, 103', colore
regia di Edouard Bergeon
con Guillaume Canet, Veerle Baetens, Anthony Bajon
STORIA
Costruito come una saga familiare e basato sulla storia personale del regista, il film offre uno sguardo sull’evoluzione del mondo agricolo di questi ultimi quarant’anni.
1979: Pierre ha 25 anni quando torna dal Wyoming per ritrovare Claire, la sua fidanzata, e prendere le redini della fattoria di famiglia. Venti anni dopo, la fattoria è cresciuta, così come la famiglia. Sono giorni felici, almeno all’inizio. Ma intanto i debiti si accumulano, Pierre si sfinisce di lavoro e, nonostante l’amore della moglie e dei figli, affonda a poco a poco.
RECENSIONE
Nel nome della Terra non è una poesia, ma una promessa nata dal bisogno improrogabile di rivelare al mondo la dolorosa realtà agricola francese tra la fine del secolo scorso e gli anni duemila, omaggiando le vittime schiacciate dalla durezza del processo di globalizzazione del settore e al tempo stesso magnificando la bellezza della vita di campagna, dove la terra è il vero casolare, dove ancora esiste(va) il sogno di una realtà incontaminata basata sulle soddisfazioni che derivano dal duro lavoro e da un rispetto reciproco tra uomo e natura.
Sposando appieno il filone di denuncia sociale ed ispirazione civica della recente cinematografia francese, Edouard Bergeon dedica la sua opera prima ai lavoratori della terra, facendosi megafono di tensioni e storture del sistema in una finzione semi-biografica che si schiera dalla parte degli sconfitti dalla vita e delle loro storie da raccontare.
"Il lungometraggio arriva dopo I figli della terra (2012), suo documentario di debutto e che a sua volta portò alla luce le scabrosità di quel mondo agricolo a cui è sempre stato legato. Sono chiare le intenzioni dell’autore, che crescendo ha palesemente maturato un desiderio di denuncia verso un sistema che ha pressato l’economia agricola per tutto l’ultimo ventennio, “obbligando” i contadini a modernizzarsi e diventare imprenditori, costretti a cercare forme sempre più intensive ed efficaci per allevare e coltivare nel minor tempo possibile, con una manutenzione che non basta mai, sempre insoddisfacente e massacrante. Bergeon si preoccupa soprattutto di raccontarlo dal punto di vista umano, come se la vera denuncia fosse il ricordo di quei giorni felici, così nitido, così significativo di tutto ciò che, se fosse andata diversamente, avrebbe potuto avere dalla vita “con la terra” e dalla vita con suo padre, uomo che ha cercato di accrescere il suo stato adattandosi al sistema ma rimanendo vittima dello stesso."
Roberta Loriga (Sentieri Selvaggi)
INTERVISTA A EDOUARD BERGEON
Nel nome della terra” nasce dalla tua storia personale: il personaggio principale – Pierre, interpretato da Guillaume Canet – è direttamente ispirato a tuo padre, un agricoltore.
Vengo da un’antica stirpe di contadini, figli e nipoti di contadini, sia dal lato materno che da quello paterno. Christian Bergeon, mio padre, cominciò a lavorare come agricoltore nel 1979, con tutta la passione per questo mestiere. Ha lavorato duramente insieme a mia madre perché mia sorella e io vivessimo una gioventù felice nella fattoria. “Nel nome della terra” è una saga familiare che vuole dare una prospettiva umana sull’evoluzione del mondo agricolo negli ultimi quarant’anni.
Sei autore di molti reportage e documentari per la televisione. Perché hai deciso di realizzare questo primo lungometraggio di finzione?
L’idea non mi sarebbe nemmeno passata per la testa se non avessi incontrato Christophe Rossignon, il produttore del film. Nel 2012, vide “I figli della terra”, un documentario di 90 minuti in cui seguivo Sébastien, un agricoltore la cui storia mi ricordava quella di mio padre. Christophe, figlio e fratello di un agricoltore, era rimasto colpito dal film e voleva incontrarmi. Suo fratello maggiore, che ha preso il posto di suo padre nella fattoria di famiglia, ha dovuto confrontarsi con una realtà agricola che avrebbe potuto sconvolgere la sua vita... Il progetto di un film ispirato alla storia della mia famiglia nasce dalla nostra prima conversazione. Christophe e io abbiamo molte cose in comune: siamo due figli della terra e siamo subito entrati in sintonia.La scrittura di un film di finzione è molto diversa da quella di un documentario.
Come hai affrontato questa fase della lavorazione?
All’inizio, ha suggerito l’idea che “I figli della terra” poteva diventare una docu-fiction. Mi ha spinto ad accantonare le esperienze dei contadini girate nei miei documentari per restare fedele solo ai miei ricordi. E visto che non c’era molto materiale di archivio su mio padre, di crearne di nuovo. I francesi non ci sono abituati, ma è una pratica molto comune tra gli anglosassoni. Ho accettato subito, con un avvertimento: non avevo mai fatto fiction, non conoscevo nessuno, ma penso che questo non abbia preoccupato Christophe Rossignon. Non sapevo come scrivere una sceneggiatura, così ho lavorato con due co-autori – prima Bruno Ulmer e poi Emmanuel Courcol – cominciando da un foglio bianco. Io fornivo il materiale per le sequenze, loro gli davano forma e sviluppo narrativo. È solo verso la fine che ho cominciato anche io a scrivere qualche scena.
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