documentario, Italia, 2019, 87’, colore
regia di Milad Tangshir
Un viaggio che tocca tre tra i più importanti osservatori astronomici del mondo, situati negli angoli più remoti del pianeta: il deserto di Atacama in Cile, il Grand Karoo in Sudafrica e l’isola di La Palma, nell’Oceano Atlantico. Tre punti privilegiati per l’osservazione e lo studio del cosmo dove, grazie a sofisticate tecnologie, la comunità scientifica internazionale ha raggiunto brillanti scoperte sulle origini dell’universo e della vita sulla Terra.
Vicino ai telescopi vivono comunità indigene, minuscoli villaggi di contadini, pescatori, persone che hanno un legame forte con questi luoghi remoti. Due mondi agli antipodi, che condividono la stessa attenzione verso il cielo che li sovrasta e, grazie alle loro letture e suggestioni, tanto diverse quanto affascinanti, ci aiutano a rivolgere il nostro sguardo verso l’alto, verso le stelle di cui siamo parte.
NOTE DI REGIA
Ormai da troppo tempo la prospettiva cosmica è assente nella nostra vita quotidiana. In un tempo segnato da conflitti sanguinanti, da fanatismo religioso e sciovinismo nazionale ed etnico diventa necessario ritrovare il nostro legame con il cosmo e risvegliare la nostra coscienza planetaria addormentata. È necessario recuperare uno sguardo cosmico per capire che il nostro pianeta non è altro che un piccolo punto, perso nel vasto oceano dello spazio e del tempo e che gli uomini si trovano insieme a percorrere un cammino comune su un granello di polvere galleggiante in una infinita oscurità. Star Stuff è un viaggio per ritrovare questa prospettiva, attraversando luoghi remoti del pianeta e osservando gli esseri umani che vivono vicino a queste “finestre” sull’universo.
RECENSIONE
Protagonisti di Star Stuff non sono gli astri o gli osservatori astronomici nel deserto di Atacama, sull'isola di La Palma, nel Great Karoo in Sud Africa. O meglio, lo sono nella misura in cui entrano in dialettica feconda con l'esperienza del limite che contraddistingue, in misure diverse, l'attività degli astronomi che vi operano e le esistenze quotidiane che le persone conducono nei loro dintorni. Se per i primi il limite riguarda la conoscenza, la possibilità di sapere qualcosa dell'universo semplicemente osservandolo e, per così dire, computandone con umiltà l'evoluzione dei fenomeni, per le seconde corrisponde alla difficoltà del vivere, in tutta la sua durezza fatta di lavoro, fatica, inevitabili dolori e piccole gioie trovate nei momenti che permettono di provare uno scampolo di felicità.
L'osservatorio diventa in sé una circoscrizione privilegiata, in cui poter esplicare il desiderio di proiettarsi intellettualmente oltre la sfera del qui/ora, alla ricerca di un altrove/passato dalla cui lontananza estrarre risposte importanti, ma che, forzatamente, non potranno avere ricadute sulla qualità della vita di chi vi abita intorno. Ma nei gesti, nelle parole, nelle illusioni e nelle convinzioni di questi ultimi è depositata una ricchezza altrettanto profonda e degna di considerazione, che Tangshir fa emergere con nettezza, attraverso una compostezza di sguardo che ne certifica da sola tutta l'importanza. Che si tratti di una donna in cerca delle proprie radici tra le abitazioni abbandonate dei genitori e dei nonni; di un uomo che si domanda perché non sia possibile realizzare il sogno della fratellanza umana; di un pescatore o di un guardiano di capre che non cercano vie di fuga alla loro condizione vissuta come appagante di per sé; di uomini e donne consapevoli dell'ingiustizia storica e sociale di cui sono il prodotto ma anche permeabili al richiamo di una religiosità elementare dall'ipnotica immediatezza.
La maestosità lontana dei cieli mostrata in tutto il suo fascino con la tecnica del timelapse si contrappone quindi alla – ma sarebbe meglio dire che si completa nella – concreta fisicità delle pieghe e delle pietre di un deserto, delle onde dell'oceano, del fuoco di un falò acceso nella notte, del vento che sospinge la polvere nella strada. Poiché dopotutto, come dice sorridendo, e senza nessuna concessione al più banale pensiero mistico o new age, Sivuyile Manxoyi, l'astronomo sudafricano dai lunghi capelli rasta, noi siamo intimamente legati alle stelle ed è da lì che veniamo. E magari a loro ritorneremo, un giorno. Quasi a voler indicare la strada, mostra poi il cielo ai bambini del villaggio per il tramite di un telescopio portatile cui essi possono accedere per averne una breve esperienza di conoscenza. E considerare forse un'opzione di affrancamento per la loro vita su questo nostro pianeta.
Adriano Piccardi
Fonte: Cineforum 06.01.2021
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