film, Giappone-URSS, 1975, 141' (edizione integrale - sott. ita.), colore
regia di Akira Kurosawa![]()
STORIA
All’inizio del XX secolo, il capitano Arseniev conduce una piccola spedizione di ricognizioni geografiche ai confini della Cina, nella vasta e inesplorata zona del fiume Ussuri. Una sera, mentre gli uomini riposano accanto al fuoco, si presenta un cacciatore anziano della tribù dei Gold. È un tipo bizzarro, ma saggio, esperto della regione e privo della famiglia, toltagli da una epidemia di peste. Invitato a fungere da guida, Dersu accetta e si dimostra molto utile: insegna a tutti i segreti della natura e salva la vita ad Arseniev una notte in cui vengono colti da una tempesta di vento mentre sono soli e sperduti in una palude. A sua volta il capitano salva Dersu dalle rapide di un torrente. Separatisi con dispiacere, i due amici si ritrovano nel corso di una seconda spedizione. Ma l’anziano cacciatore sta divenendo cieco. Arseniev lo conduce in città, e lo ospita in una casa alla quale il Gold non è abituato. Quando Dersu sente la nostalgia della tajga, Arseniev gli regala un fucile modernissimo che ingolosirà un ignoto brigante e costerà la vita al vecchio
NOTA
Scoraggiato, dopo l’insuccesso; di Dodes’ka-den, malato, psichicamente depresso e assillato dal disastro ecologico cui il suo Paese sembra inesorabilmente avviato, Kurosawa, in un momento di completa sfiducia nei confronti dell’umanità e dell’esistenza, tenta il suicidio. L’intervento del ministero della cultura sovietico, che stanzia la somma necessaria alla produzione di un altro film, è determinante nello sbloccare la situazione. Nasce cosí, in coproduzione con l’Unione Sovietica, Dersu Uzala, premiato all’ultimo Festival di Mosca e insignito dell’Oscar 1976 «per il miglior film straniero».
È nota la vibrata protesta che il regista giapponese ha elevato nei confronti della distribuzione italiana, rea di aver gravemente manomesso l’edizione originale del film per fini esclusivamente commerciali. «I miei film sono una parte di me stesso e chi ha commesso questo oltraggio è come se avesse maltrattato la mia persona», ha dichiarato Kurosawa. Per fortuna la sua fermezza nel denunciare il fatto e la solidarietà che tale denuncia ha riscontrato negli ambienti culturali hanno fatto sí che il film riacquistasse la sua veste ed il suo metraggio originari.
RECENSIONE
Siamo nel 1975. Un anno importante per quanto riguarda la Settima Arte. È l’anno in cui vediamo nascere pellicole del calibro di Barry Lyndon, Salò o le 120 giornate di Sodoma, Qualcuno volò sul nido del cuculo. Questi non sono, però, gli unici capolavori che vedono la luce in questo anno glorioso. Il 1975, infatti, segna soprattutto il ritorno al cinema del grandissimo cineasta giapponese Akira Kurosawa, il quale, dopo una profonda crisi personale in seguito al flop del suo (meraviglioso, ma sottovalutatissimo) Dodes’ka-den (1970), film corale di forte impronta neorealista, ambientato in una baraccopoli nipponica, dà vita ad un altro capolavoro, destinato ad entrare di diritto nella storia del cinema. Il lungometraggio in questione è Dersu Uzala, girato nel 1975 – esattamente cinque anni dopo l’uscita in sala di Dodes’ka-den – tratto da una storia realmente accaduta, frutto di una coproduzione con l'Unione Sovietica e vincitore del Premio Oscar al Miglior Film Straniero nel 1976.
Dersu Uzala: un nome semplice, breve, conciso. Un piccolo nome. Il nome di un piccolo uomo che per anni ha vissuto nella taiga siberiana diventando un tutt’uno con la natura. Un piccolo uomo che ha trovato in un esploratore russo il suo più grande amico. È questa, infatti, la storia di una grande amicizia nata per caso, ma forte nel corso degli anni, malgrado la distanza. L’amicizia tra il cacciatore Dersu Uzala, appunto, ed il capitano Vladimir Klavdievič Arseniev, incaricato di esplorare la taiga fino ad arrivare al confine con la Cina. Tutto ciò accade nel 1902 ed è da questo anno che inizia il lungo flashback in cui Arseniev stesso ricorda il suo amico scomparso da pochi anni. Un amico che avrà più volte occasione di salvargli la vita e che, malgrado tutto, non chiederà nulla in cambio, se non qualche pallottola per continuare a dedicarsi alla caccia.
Il personaggio di Dersu Uzala in sé sembra, fin dal primo momento, appartenere ad un mondo fantastico, magico. Non sembra, di fatto, parte del nostro mondo. Lo si può notare non solo dal rapporto speciale con la natura che lo circonda e da come si rivolga ad ogni suo elemento chiamandolo “uomo”, ma proprio dal suo identificarsi con la natura stessa, al punto di diventare un tutt’uno con essa e da trovarsi, pertanto, del tutto fuori luogo nel momento in cui sarà costretto ad abitare in una casa di città. Ed è proprio la natura, dunque, l’altra grande protagonista della pellicola di Kurosawa: una natura madre, sorella, amica, che, però, di punto in bianco può diventare spietata, punendo duramente chiunque tenti in qualche modo di dissacrarla.
Chi meglio del maestro Kurosawa, dunque, avrebbe potuto raccontare per immagini due rapporti così forti ed importanti come quello tra Arseniev e Dersu Uzala e tra quest’ultimo e la natura? Da grande esperto in campi lunghi – non dimentichiamo, ma forse non serve neanche ricordarlo, che i suoi film di samurai, e non solo, hanno fatto scuola in tutto il mondo – ecco apparire sul grande schermo immagini altamente poetiche e suggestive, addirittura contemplative nel mostrarci i due uomini, Dersu Uzala ed Arseniev, appunto, vagare per la grande pianura siberiana, con il sole al tramonto, nel tentativo di costruirsi un riparo per la notte. Poco spazio alle parole, le immagini – e le figure dei due uomini in controluce con un caldo sole (terzo personaggio della scena) sullo sfondo – sono qui le vere protagoniste, stando quasi a ricordarci delle ombre cinesi, dato, appunto, il forte controluce ottenuto grazie alla fotografia di Asakazu Nakai.
Ritmi lenti, grandi silenzi, poche ma significative parole e, soprattutto, i semplici ma precisi gesti di Dersu Uzala – insieme ai suoi grandi insegnamenti – scandiranno gran parte della pellicola, dando vita, così ad un grande capolavoro – e per una volta possiamo essere sicuri di non esagerare usando tale termine – che non solo ci regala una storia di rara delicatezza, ma si fa anche vero e proprio manuale di regia per quanto riguarda la gestione degli spazi e della luce. Una pellicola da vedere e rivedere, assolutamente da recuperare nel caso in cui qualcuno non abbia ancora avuto la possibilità di apprezzarla. Un vero piacere per gli occhi e per lo spirito. Quale declinazione migliore, dunque, per la nostra amatissima Settima Arte?
Marina Pavido - Cineclandestino
